giovedì 29 ottobre 2009

Apollo 17, la sonda LRO restituisce immagini in alta risoluzione

Diversi mesi fa mi sono occupato della sonda LRO inviata intorno alla Luna per fotografare in dettaglio la superficie del nostro satellite, che ha immortalato (alla faccia di chi dice che sulla Luna non ci siamo mai stati) anche i luoghi in cui sono avvenuti gli sbarchi. Trovate gli articoli dedicati qui, qui e qui.

La sonda ha ormai raggiunto da quasi una mese la sua quota definitiva di 50km restituendoci delle immagini ad una risoluzione più elevata di quelle proposte negli articoli linkati. Nella foto in basso (cliccabile per ingrandirla ed avente una risoluzione di mezzo metro per pixel) è immortalato il sito dell'allunaggio della missione Apollo 17 tenutasi nel dicembre 1971, l'ultima ad aver portato l'uomo sulla Luna. Essa fu anche l'ultima missione del programma Apollo escludendo il test Apollo-Soyuz del 1975 in cui la navicella americana si agganciò in orbita terrestre con quella sovietica.


Al centro della foto è presente lo stadio di discesa del Modulo Lunare Challenger, la navicella con la quale gli astronauti Cernan e Schmitt allunarono. Tale stadio fece da piattaforma di lancio per lo stadio di salita quando essi ripartirono dalla Luna per ricongiungersi con l'astronauta Evans rimasto in orbita. Il video della ripartenza, proposto in basso, fu registrato da una telecamera montata sul rover, la "macchinina" lunare vedibile in questa foto ed indicata dalla sigla LRV.



Con la sigla SEP (Surface Electrical Properties) è indicato lo strumento utilizzato per studiare le caratteristiche elettriche del suolo. Si è così scoperto che esso è estremamente secco essendo totalmente assente l'acqua.

Con ALSEP (Apollo Lunar Surface Experiments Package) sono invece indicati una serie di strumenti impiegati per diverse misurazioni tra i quali un sismografo ed un analizzatore dell'atmosfera lunare. Nella foto in basso (ingrandibile) sono visibili i vari strumenti dell'ALSEP tra cui l'RTG (Radioisotope Thermoelectric Generator) ossia il generatore da 70W che, convertendo il calore generato dal decadimento radioattivo del plutonio in energia elettrica, alimentava tutti gli strumenti.


Con R1, R2 e R3 sono indicate delle rocce riportate anche in basso nell'ingrandimento della zona in cui è stato posto l'ALSEP in modo da facilitare il riconoscimento dei vari strumenti.

Visibilissime inoltre le tracce lasciate dagli astronauti a piedi o col rover lunare.

Una curiosità: le "collinette" che si vedono sullo sfondo sono in realtà delle montagne alte anche 2km. Sembrano piccole in quanto sulla Luna mancano oggetti da prendere come riferimento per un paragone quali case o alberi ed inoltre, mancando l'atmosfera, non è presente la foschia che "appanna" gli oggetti distanti dando il senso di lontananza.

domenica 25 ottobre 2009

Energia elettrica dalle onde del mare

Quando sentiamo parlare di energia rinnovabile pensiamo immediatamente all'energia solare, eolica ed idroelettrica. Una fonte meno nota ma molto promettente è il mare che copre 3/4 buoni della superficie terrestre.
L'interesse non è del tutto nuovo. Nel novembre del 1966 aprì i battenti la prima centrale in grado di sfruttare le maree, ovvero quella di Rance (Francia). L'alta marea riempie una mega vasca che viene poi svuotata durante il giorno mettendo in moto delle turbine che generano energia elettrica.

Una filosofia diversa è quella seguita dall'australiana Oceanlinx che sfrutta il moto delle onde. La tecnologia si basa su delle piattaforme galleggianti formate in sostanza da uno "scatolone" semi-sommerso con in cima una turbina come mostrato nella figura in basso.

Nella prossima figura è mostrato invece il principio di funzionamento dell'impianto.

Quando l'onda entra nello scatolone, l'acqua spinge l'aria in una turbina facendola girare generando energia elettrica. Il sistema è in grado di sfruttare anche il deflusso dell'acqua infatti quando il livello diminuisce si crea un risucchio d'aria che continua a far girare la turbina.
A questo punto mi si era alzato un sopracciglio dubbioso pensando "un secondo, ma se l'aria circola in senso opposto lo farà anche la turbina". In realtà la turbina ha delle alette auto-orientabili per cui essa gira sempre nello stesso verso nonostante il flusso d'aria inverta direzione. E' come se un ventilatore soffiasse sempre nella stessa direzione nonostante lo fate girare al contrario in quanto avete invertito l'inclinazione delle pale. Il meccanismo è ben visibile in questo video a 3:35 circa, preso dalla trasmissione Beyond Tomorrow dedicata a scienza e tecnologia.



Tale sistema è promettente in quanto non ha parti meccaniche sommerse essendo la turbina al di sopra del livello del mare. In tal modo si evita la corrosione a causa dell'acqua marina, è facilitata la manutenzione non essendoci la necessità di immersioni ed in caso di incidenti come perdita di lubrificante viene ridotto l'inquinamento marino.

Le onde di cui stiamo parlando non sono le piccole increspature sulla superficie del mare dovute al vento che cambia rapidamente nel giro di poche ore, bensì alle lente oscillazioni del mare simili alle onde da surf o a quelle causate da uno tsunami. Queste onde sono in grado di percorrere migliaia di km e diventano tanto più regolari ed energetiche quanto più sono in grado di propagarsi senza essere rotte da isole garantendo energia sufficiente con continuità. Ciò spiega perché le isole Hawaii sono particolarmente interessate alla tecnologia in quanto, trovandosi a notevole distanza dalla terra ferma, vengono investite dai moti ondosi provenienti dal polo sud, dallo stretto di Bering e dall'Asia.

Dopo essersi dedicata ai prototipi, la Oceanlinx sta costruendo una centrale dimostrativa composta da varie piattaforme collegate fra loro ed alla rete elettrica australiana. Sarà pronta per il 2010 al largo di Sydney e fornirà una potenza di 2.5 MW in grado di soddisfare il fabbisogno energetico di circa 2000 abitazioni.

Fonti:

venerdì 16 ottobre 2009

L'Arte del Fallimento

Chi l'ha detto che un guasto non possa essere gradevole al punto da diventare una vera e propria opera d'arte?

E' quello che deve aver pensato Djemel Lellouchi, ingegnere della Nova MEMS, un'azienda francese di componenti micro-elettro-meccanici vincitore del concorso Art of Failure Analysis, letteralmente l'Arte dell'Analisi dei Guasti . Per la serie "sbagliando si impara" quando i componenti elettronici si guastano, magari perché di nuova progettazione e quindi ancora acerbi, essi vengono sottoposti ad una vera e propria autopsia in miniatura. Tramite microscopi, raggi X e speciali trattamenti fisico-chimici si analizzano i componenti per scoprire il perché del guasto.

Durante una di queste autopsie su uno switch ottico (rozzamente, un interruttore che scatta se illuminato o meno) Lellouchi ha trovato questo "uovo di dinosauro" che gli ha fatto vincere il concorso per il ... miglior fallimento 2009.

A seguire altre 9 stranezze microscopiche presentate nello stesso concorso. Seguendo la filosofia "rendi questo blog comprensibile persino a tua madre" sacrificherò la precisione in funzione dell'essenza, quindi gli esperti in elettronica e fisica dello stato solido non rabbrividiscano per la semplificazione che adotterò nelle didascalie.

Questo "fiore" è un grumo composto in parte di zolfo, elemento chimico presente nel celebre e corrosivo acido solforico. Un chip è composto da vari strati di diverso materiale, un po' come un panino di McDonalds, che devono avere uno spessore ben preciso. Quando se ne mette troppo o bisogna fare un po' di pulizia superficiale, si usano degli acidi che sciolgono in parte il materiale.

Queste "radici" sono in realtà delle crepe all'interno di uno strato di arseniuro di gallio, materiale usato per celle solari, sensori ad infrarossi e chip ad alta velocità. Affinché un chip funzioni correttamente è necessario che il materiale con cui viene realizzato sia un cristallo perfetto, senza difetti come buchi o crepe. Tuttavia la perfezione non esiste, i difetti son sempre presenti (anzi, in alcuni casi sono necessari) e possono avere la simpatica tendenza a propagarsi come una crepa che avanza col tempo in una parete.

Non è la coda di un serpente, bensì un minuscolo ago di tungsteno, lo stesso materiale di cui è fatto il filo delle lampadine che diventa incandescente. Nella foto quello che è successo ad una micro-sonda che ha inavvertitamente colpito la superficie del chip arricciandosi.

Mi ha ricordato un po' la faccia di Gesù "apparsa" su un bastoncino di pesce. Questo volto minaccioso è il risultato dell'impatto di un oggetto su una superficie d'oro. Il prezioso metallo si lascia attraversare molto bene dalla corrente e viene usato per realizzare minuscoli fili all'interno dei chip. Dato il crescente numero di rifiuti elettronici (vecchi pc in primis) si sta pensando di recuperare questi metalli preziosi anche se resta da valutare la convenienza economica.

Cosa fate prima di incollare un adesivo ad una superficie? Esatto, la pulite per migliorare l'aderenza. Nei chip avviene la stessa cosa. Affinché i vari materiali si incollino bene a vicenda è necessario pulirne le superfici e questo può essere fatto anche con della semplice acqua a patto che sia purissima. In caso contrario la presenza di contaminazioni può causare queste "foreste".
I due materiali incollati sono alluminio, metallo usato per collegare diverse zone del chip, e nitruro di silicio, un materiale isolante composto da silicio ed azoto.

Tulipani olandesi? In realtà dei diodi spezzati visti ai raggi X. Qui una foto di un diodo intero.

Quella che sembra un'anatra che "contempla il futuro dell'industria dei semiconduttori", come detto dal suo scopritore, è in realtà un grumo di piombo.

No, non è la tigre dai denti a sciabola de L'Era Glaciale. Le "zanne" servono per collegare diversi strati di un chip e consentire il passaggio della corrente, un po' come le scale di un palazzo consentono alle persone di spostarsi tra i diversi piani. La presenza della scala ci consente di farci un'idea delle dimensioni in gioco. La "zanna" è larga 20μm ossia 20 milionesimi di metro, 5 volte più sottile di un capello. Se sembra già un'inezia, basti pensare che in alcuni casi 20μm sono un'enormità in microelettronica. A volte si impiegano strati di materiale spessi 0.01μm, ossia 10.000 volte più sottili di un capello.

Non so voi, ma io ho pensato immediatamente ad un intestino umano. In realtà è una termografia, ovvero un'analisi che ci dice quanto è alta la temperatura del chip in varie zone in modo da capire dove si accumula il calore con conseguente rischio di bruciatura.

Chirurgia estetica 1, Riconoscimento facciale 0

Avete presente quei film di fantascienza o di spionaggio in cui una telecamera vi inquadra il volto e vi riconosce salutandovi anche con un "buongiorno signor Smith"? Bene, sappiate che se volete continuare ad essere riconosciuti dovete accettare l'avanzare dell'età o qualche difettuccio estetico.

Sembra infatti che il riconoscimento facciale abbia trovato un ostacolo ben più insormontabile di parrucche, baffi finti, scarsa illuminazione ed espressioni buffe: la chirurgia plastica.
E non stiamo parlando di interventi che cambiano completamente la fisionomia di un viso, ma correzioni locali come togliere rughe intorno agli occhi o il doppio mento.

Il professor Afzel Noore della West Virgina University ed il suo team di collaboratori ha saggiato le capacità di diversi software per il riconoscimento facciale basandosi su un archivio fotografico di 506 persone che hanno subito interventi di chirurgia estetica. Il compito del software era quello di riconoscere la stessa persona prima e dopo l'operazione.
I risultati non sono molto incoraggianti come si vede nella fotografia in cui viene indicato il tasso di successo per diversi i interventi, ossia quante volte il software è stato in grado di riconoscere la persona che ha subito quel particolare trattamento. Si va da un non disprezzabile 41% per un intervento alle palpebre ad uno sconfortante 2% per un lifting.
In soldoni, basta stiracchiarvi un po' la pelle ed il software non è più in grado di riconoscervi.

L'intenzione del professor Noore è quella di basare i futuri software su caratteristiche del viso che restano inalterate anche dopo interventi di chirurgia estetica in modo da rendere il riconoscimento facciale più robusto ed affidabile.

Bisturi a parte, il riconoscimento facciale sembra essere ben lontano dal riconoscervi il 100% delle volte visto che, secondo tale Erik-Learned Miller nei commenti all'articolo su IEEE Spectrum, per fregare il software basta semplicemente sorridere ...